DOMENICO TAPPERO MERLO

Le tappe dei tappi è la nuova sezione dedicata al racconto della viticoltura italiana. In questo primo articolo raccontiamo una storia di radici ritrovate.

Iniziamo, per chi non lo conoscesse, con qualche informazione su Domenico Tappero (cognome perfetto per l’avvio della rubrica): nasce e cresce nel Canavese, terra di vignaioli ancor prima che i Romani cominciassero a coltivare la vite. Per la Regione piemontese è stata la principale fonte di sostentamento e ha raggiunto risultati eccellenti: nell’Ottocento si producevano alcuni tra i migliori vini del Regno di Sardegna (federazione che comprendeva i cosiddetti “Stati di terraferma” della dinastia sabauda).

 

 

 

La viticoltura è dunque nella tradizione delle famiglie canavesane, inclusa la sua. Ma lui, come tanti compaesani, è attratto da una nuova tecnologia e dal suo principale protagonista, l’ingegner Adriano Olivetti, proprietario a Ivrea dell’azienda che ha rappresentato l’avanguardia italiana dell’informatica. Decide dunque di affrontare un’importante esperienza imprenditoriale nel mondo del software e porta avanti l’impresa fino agli anni Duemila. Al vertice del successo, cede la sua creatura a una multinazionale e nel 2001 sceglie di tornare alle origini e di proseguire la tradizione del nonno.

 

Un percorso inconsueto. In pratica, cosa succede?

Decido di dedicarmi a una nuova avventura nella mia terra, ripiantando i vigneti di famiglia, acquistandone altri e destinandoli alla sperimentazione dell’Erbaluce di Caluso, un vitigno autoctono a bacca bianca. Inizio quindi a fare vino. Vendo la prima bottiglia nel 2017 (annata di vendemmia 2011). Avevo idee precise su quello che stavo cercando; ho perseverato finché non ci sono riuscito.

 

Questo dice molto sul suo modo di vedere l’Erbaluce di Caluso e sulla sua filosofia produttiva.

Ognuno di noi ha una sua naturale propensione verso le cose. Io ho sempre amato la natura, e la vigna è sempre stata il mio luogo del cuore; sono ripartito dalle mie radici. Per me il lavoro è recuperare quanto di più valido si facesse in passato e rielaborarlo con le moderne tecniche agronomiche, operando con il massimo rispetto per l’ambiente.

Godo delle certificazioni bio ma non le uso in etichetta, perché sono convinto che, per avere la percezione del valore e della salubrità di un vino, sia necessario e sufficiente attraversare la vigna. È questa la certificazione che preferisco.

 

Qual è il suo vino più identitario?

Quello dedicato a mio nonno, che mi ha richiesto 15 anni di pazienza; l’ho ricreato e lui stesso mi diceva di dargli tempo affinché potesse esprimersi al meglio. L’ho ascoltato e finalmente ce l’ho fatta: quindi, KIN da Domenichin, l’appellativo del nonno.

Questo vino – ma come tutti i miei – nasce al 90% in vigna. Il lavoro più importante è quello dei microrganismi del suolo. Solo se la vite assorbe i minerali di cui ha bisogno, il vino acquisirà i caratteri del luogo.

Quindi KIN è un vino bianco, 100% Erbaluce. L’uva è posta in grandi tini di acciaio in attesa che i lieviti indigeni diano il via alla fermentazione; poi matura sulle fecce fini per 18 mesi in grandi botti di rovere da 20 ettolitri, e vengono effettuati battonage settimanali (azione svolta utilizzando un attrezzo che rimette in sospensione la feccia depositata sul fondo della botte, ndr). Segue poi un lungo affinamento di 3 anni in bottiglia. Questo vino è passione e pazienza, una vera e propria antitesi del tempo in cui viviamo.

 

CiBi ha di recente dato il via a una ricerca che abbiamo chiamato autoctono da scoprire. Quindi, un suo vino in particolare ha catturato la nostra attenzione: Acini Perduti. Ce ne parla?

Giovanni Battista Croce, orafo, agronomo ed enologo, scrive nel 1606 un libro sul vino delle colline torinesi e la prima uva che descrive è l’Erbaluce; ma poi parla anche di altre varietà. Una è la Malvasia Moscata. L’ho ricercata e, una volta trovata, ho iniziato a impiantarla, facendo così un lavoro di recupero di un vitigno che era stato protagonista in Piemonte nei secoli passati ma che mancava da 200 anni.

Il motivo è che la Malvasia Moscata era meno produttiva e più vulnerabile alle malattie rispetto al Moscato Bianco. Inoltre, quest’ultimo era la base dei Vermouth e aveva aromaticità e profumi più intensi. Il mercato l’ha premiato e di conseguenza deciso le sorti della Malvasia Moscata. Ma oggi i palati sono differenti e si tende a premiare più l’equilibrio gusto-olfattivo rispetto a una travolgente onda aromatica.

 

Acini Perduti rappresenta un sorso di passato. L’80% è Malvasia Moscata e il restante 20% è Erbaluce. La fermentazione avviene su lieviti indigeni in tonneaux (particolari botti di legno) da 500 litri e l’affinamento prosegue sulle fecce fini per 12 mesi con continui battonage settimanali; poi per altri 4/6 mesi in bottiglia. È un vino con una bella aromaticità ma è allo stesso molto aggraziato, complice la vinificazione in blend con l’Erbaluce che gli conferisce anche maggiore acidità e struttura.

Si abbina bene a moltissime preparazioni, tra cui pesce di lago e verdure in tempura.

Elisa Alciati

elisa.alciati@libero.it

 

 

 

Malvasia Moscata

Vitigno a bacca bianca, la cui presenza è attestata nel XV secolo su tutto il territorio della Regione Piemonte, progressivamente scompare in favore del più noto Moscato Bianco verso la fine dell’Ottocento. Dal 2012 la Malvasia Moscata è iscritta nel Registro Nazionale delle Varietà di Vite.

Il grappolo cilindrico-conico, compatto, di media grandezza, come gli acini, presenta una o due ali. La buccia è di colore giallo-verde.

 

 

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