IL VINO NEL MONDO ANTICO

“Solo i barbari bevono vino non diluito”, sostenevano i Greci. C’è da dire che il vino dell’antichità non era esattamente la bevanda cui siamo abituati oggi”.

Le prime tracce di vinificazione le troviamo tra le montagne del Caucaso, nell’odierna Georgia, 8.000 anni fa. Il vino impiega qualche millennio a diffondersi nel mondo antico, accompagnando il nascere e il fiorire di numerose civiltà: 7.000 anni fa arriva in Persia, 6.100 anni fa in Armenia e 6.000 anni fa in Sicilia.

 

 

Come è accaduto molto spesso nella storia delle sostanze “speciali”, che provocano stati alterati di coscienza, come nel caso delle bevande alcoliche, il vino trova presto un inquadramento “sacrale”. La vite è il simbolo del dio Dioniso, patrono del vino, dell’ebbrezza, ma anche, come ci ricorda Giorgio Colli, filosofo e storico della filosofia, il dio bestiale che sta all’origine oscura della sapienza, un dio dell’estasi che scatena un sovraccarico di conoscenza (no, non significa che se ti ubriachi diventi più intelligente!)

Ma come bevevano il vino, i Greci? Beh, innanzitutto era una bevanda molto più dolce e corposa di quella di oggi. Spesso veniva bollito per ridurne la percentuale acquosa, e poi diluito a discrezione del simposiarca (colui che realizzava la miscela tra acqua e vino e determinava il numero delle coppe che ciascuno era tenuto a vuotare durante i simposi, ndr).

Un’altra delle modalità è giunta fino a noi nel Retsina, un vino resinato che tuttora si produce in Grecia. La pratica di aggiungere resina al mosto sembra avere circa 2.000 anni. La fermentazione nelle anfore era arricchita con resina di pino d’Aleppo, consuetudine apprezzata anche a Roma, dove Plinio il Vecchio la descrive nella sua Naturalis historia, raccomandando quella proveniente da regioni montane, mentre Marziale incoraggia ad aggiungervi invece della mirra (pure lei una resina). Anche nella Penisola il vino conquista il suo posto d’onore: era sacer, sacro, e, in quanto tale, un tabù: apparteneva solo agli dèi. Per poter essere consumato, doveva essere desacralizzato e purificato nei santuari con una libazione (il verbo latino lībare significa “versare”, ah e quando vedete quella specie di trattino sopra una vocale, fate finta che le vocali siano due), e Varrone ricorda con un po’ di incertezza l’antica usanza dei Meditrinalia, festività in onore della dea Meditrina, celebrata l’11 ottobre. Probabilmente si trattava di un antico rito latino, in cui si assaggiava il vino nuovo con la formula “Novus-vetus vinum libo; novo-veteri morbo medeor”, che significa “verso il vino vecchio e nuovo; guarisco il vecchio e nuovo malessere”, come augurio apotropaico (cioè che allontana o annulla un influsso magico maligno, ndr). Ma solo in occasione dei Vinalia Priora, il 23 aprile, si poteva introdurre il nuovo vino in città.

Non per tutti però! Esisteva, nel diritto romano, una legge detta Ius Osculi, che letteralmente significa “diritto di bacio”. In cosa consisteva? Semplicemente, marito o parenti avevano il potere legale di saggiare l’alito di una donna per verificare che non avesse bevuto vino. Perché in quel caso, in base a un’altra legge fatta risalire allo stesso Romolo, avrebbe dovuto essere uccisa sul posto. Insomma, il vino non era cosa da donne o, per lo meno, non adatto all’idea che la donna doveva rappresentare nel mondo latino. Questa pratica fu poi abolita dal princeps Tiberio (mi raccomando, non “imperatore”, titolo che si usa ufficialmente solo da Vespasiano in poi!) a causa della facilità con cui incentivava la diffusione dell’herpes orale.

Tra le poche bevande (non troppo) alcoliche e non esattamente fermentate che le donne potevano invece bere c’erano i dulcia – la “c” non è dolce, e si deve pronunciare come una “k” –, vini dolci non sottoposti a una vera e propria fermentazione e che quindi sviluppavano un grado alcolico irrisorio; e la lōra, vinello di qualità inferiore, ricavato dai graspi già pigiati.

Tra gli assolutamente vietati, invece, abbiamo il mulsum, un vino mielato e speziato. Marco Gavio Apicio – gastronomo e nostra principale fonte sulla cucina romana, vissuto tra il I e il II secolo avanti Cristo – vi aggiunge anche del pepe perché si conservi meglio. Al giorno d’oggi non è certa la sua preparazione: vi è chi sostiene che il miele veniva aggiunto nella prima pigiatura, lasciando così che il mosto fermentasse insieme ad esso, e chi dichiara che fosse semplicemente aggiunto al vino già pronto insieme alle altre spezie. Sempre il nostro Apicio ci spiega invece passo passo come preparare il vinum rosatum: “raccogli molti petali di rose, togli il bianco e mettili a bagno nel vino per 7 giorni, trascorsi i quali ripeterai l’operazione con petali freschi una seconda e una terza volta. Filtra il vino e aggiungi del miele prima di berlo. […] Bada a scegliere rose belle e non bagnate dalla rugiada. Nello stesso modo, potrai realizzare il vino di viole”.

Riccardo Vedovato

riccardo.vedovato1994@gmail.com

 

 

 

 

 

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