LO STOCCAFISSO

Thorolf (guerriero vichingo) aveva una grande barca, che aspettava solo di essere messa in mare. Rifinita in tutto, come l’attrezzatura a bordo, splendidamente dipinta, le vele striate di rosso e blu…

“La fece preparare imbarcando alcuni dei suoi valorosi hùscarl (soldati professionisti, ndr) come equipaggio e la caricò di pesce essiccato e pelli, ermellino e pellicce in abbondanza, e altri pellami. Era un carico di valore…”. Diretto in Inghilterra, alla corte del re.

 

 

L’epopea di Egil, eroe leggendario scandinavo, è tra le più antiche fonti che fissano nella storia la presenza di ciò che noi chiamiamo stoccafisso o, in alcune regioni, baccalà. Il poema norreno ci ricorda come già più di mille anni fa i vichinghi stipassero nelle proprie barche l’antenato del famoso pesce essiccato.

La parola stoccafisso ha compiuto un lungo viaggio, prima di entrare a far parte del vocabolario italiano. Si pensa che stockfisk nella lingua della Frisia Occidentale significhi “pesce a bastoncino”, facendo riferimento alle griglie di legno dove il pesce veniva essiccato. Secondo altri, la parola stock potrebbe ascriversi alla staffa su cui venivano assicurati i pesci più grossi per il trasporto via mulo o cavallo dopo averli disidratati per commerciare con i villaggi vicini.

Lo stockfish nasce come pesce essiccato a freddo all’aria o in griglie di legno chiamate, in norvegese, hjell. 

Tra i metodi conosciuti per conservare il cibo, l’essiccazione è quello più antico. Così il pesce può essere immagazzinato per anni, e il procedimento per ottenerlo, nei climi adatti, è semplice, efficiente e molto economico. Erano i pescatori stessi, o talvolta le loro famiglie, a svolgere il lavoro, e il prodotto finale era poi trasportato senza fatica per commerciare con i villaggi vicini ed è, in Norvegia, il bene di consumo da più a lungo prodotto ed esportato, menzionato per la prima volta nel XIII secolo nella saga di Egil, di cui hai letto un breve estratto all’inizio di questa pagina, in cui il capoclan Thorolf Kveldulfsson, nell’anno 875 d.C., invia dello stockfish da Helgeland, in Norvegia, alla corte del re in Britannia.

Questo prodotto costituiva la maggior parte degli introiti derivanti dal commercio norvegese dall’età dei vichinghi a tutto il periodo medievale, e il merluzzo essiccato ha sfamato gli islandesi per secoli fino a diventare l’equivalente locale del pane.

Nel corso della storia, poi, varie forme di stockfish sono diventate estremamente popolari nelle cucine dei Paesi cattolici del Mediterraneo, soprattutto in Italia, dove viene chiamato stoccafisso in vari dialetti, anche se in veneto vi si riferisce con il termine baccalà, che indicherebbe in realtà il merluzzo salato. Nella cucina russa lo stoccafisso è un piatto molto popolare, mangiato spesso con vodka e birra, e nel XVI secolo quello russo e quello svedese venivano commerciati in tutta Europa. Il piatto si estese a tal punto lungo la carta geografica da raggiungere anche l’Africa e diventare un alimento base della cucina nigeriana.

Le varianti e declinazioni di questo alimento non si contano, ma bisogna, a questo punto, fare una distinzione: lo stockfish è un pesce essiccato senza sale, dettaglio che dobbiamo ricordare per non confonderlo con la sua variante salata, il klippfisk, merluzzo la cui preparazione richiede una salatura prima di essere messo ad essiccare. Il klippfisk e le sue successive evoluzioni sono molto più recenti, perché per lungo tempo il sale non è stato un bene di facile accesso e, di conseguenza, il processo di salatura era costoso e non attuabile da tutti. Dobbiamo aspettare il XVII secolo, più di mezzo millennio dopo i fatti narrati dalla saga di Egil, perché il sale dell’Europa meridionale arrivi in abbondanza nei mari del Nord.

Non è solo l’essiccazione, però, il processo che entra in gioco per trasformare il pesce in stockfish.

Il risultato finale è reso possibile dall’aiuto di milioni e milioni di minuscoli alleati inconsapevoli: i batteri. Lo stockfish, infatti, è anche il prodotto di uno specifico tipo di fermentazione, un po’ come accade al latte nel processo di formazione del formaggio. Sono proprio alcuni batteri, adattati a sopravvivere e moltiplicarsi al freddo, che trasformano il pesce. La sua lavorazione inizia subito dopo la cattura. Una volta eviscerato, viene lasciato essiccare intero, o diviso in due lungo la lisca lasciando la coda unita, e appeso agli hjell da febbraio a maggio. Il clima freddo lo protegge dagli insetti e impedisce un’eccessiva crescita dei batteri. Troppo freddo lo rovinerebbe, perché il congelamento ne romperebbe le fibre, ma il clima della Norvegia settentrionale in quei mesi è perfetto per la sua produzione.

Dopo tre mesi sugli hjell  il pesce viene fatto maturare per altri due o tre mesi all’interno, in un ambiente secco e arieggiato, arrivando a perdere fino all’80% dell’acqua presente al suo interno, dopodiché il nostro stockfish è finalmente pronto per il consumo!

 

Riccardo Vedovato

riccardo.vedovato1994@gmail.com

 

 

 

 

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